Interventi goldoniani (1957)

Interventi di Binni al Congresso goldoniano di Venezia (1957), pubblicati in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

INTERVENTI GOLDONIANI

(Congresso goldoniano, Venezia 1957)

Intervento sulla relazione Dazzi: testimonianze sulla società al tempo di Goldoni

Premetto che nella presente relazione si deve constatare un’evoluzione verso posizioni piú equilibrate ed accettabili rispetto a quelle che si potevano individuare in alcuni precedenti scritti goldoniani del Dazzi (rimando in proposito alle relative schede-recensioni da me fattene in «La Rassegna della letteratura italiana») il quale allora appariva piú vicino alla tesi del Givelegov (Goldoni non solo critico, ma volontario riformatore della società contemporanea in senso progressivo) e incline a forzare piú chiaramente una coscienza sociale e politica del Goldoni fino ad un suo presunto giacobinismo negli ultimi anni della sua vita in Francia. In proposito è bene ripetere che mancò al Goldoni un vero interesse politico (nelle sue relazioni quale console di Genova e Venezia non si può osservare, al di là dello zelo di informazione e di una generale, sempre piú viva curiosità per le vicende umane, un vero interesse politico e neppure quello che il Dazzi chiama «pallino politico») e quanto al suo giacobinismo come non ricordare, nei Mémoires, le espressioni di gioia riconoscente, il compiacimento nel riferire le accoglienze del re, il piacere di vivere alla corte? Del resto, se il Goldoni ebbe una consonanza con generali motivi della sua epoca (fiducia nella ragione, spirito di tolleranza, antipatia per l’oppressione e fortissimo interesse per gli uomini e per la loro civitas terrena), mancò a lui un preciso impegno di trasformazione della realtà esistente nel senso piú peculiare e centrale dell’illuminismo. Né si deve trascurare il fatto che la situazione politica e culturale veneziana entro la quale egli soprattutto si formò e operò era ben diversa in tal senso da quella, ad esempio, della Lombardia austriaca, dove l’opera di un Parini tanto piú chiaramente si precisa in senso coscientemente illuministico. Ché alla fine, se è lecito adoperare la qualifica illuministica in senso lato per una periodizzazione della zona centrale del Settecento (e si potrà parlare di una lata mentalità illuministica, di una poetica illuministica come effetto di una irradiazione generale, nei binomi natura-ragione, piacere-virtú ecc.), in un’accezione piú limitata e precisa occorrerà pur qualificare come illuministico un deciso impegno rinnovatore verificabile sulla celebre definizione kantiana del «sapere aude», del coraggioso impiego della ragione nella trasformazione della società. Cosí, immediato è il rapporto dell’attività pariniana (specie nella fase delle prime Odi e delle prime parti del Giorno) con l’impegno illuministico riformatore in una precisa collaborazione con il gruppo degli illuministi lombardi e con lo stesso governo illuminato del Firmian e del Kaunitz, e tutti i motivi che animano già i suoi componimenti scritti per l’Accademia dei Trasformati (anche se il Parini orientò la sua attività in senso riformistico e non rivoluzionario) hanno ben diversa decisione e consapevolezza programmatica (antimilitarismo, antifeudalismo, ecc.) che non quelli consimili che pur possono trovarsi nel Goldoni, tanto piú attenuati e privi di uno scopo preciso e di una funzione di appoggio all’attività riformatrice di un gruppo culturale e di un governo.

Occorre perciò grande cautela storica nei confronti di una possibile immagine di un Goldoni deciso illuminista, riformatore sociale consapevole. La sua indubbia sensibilità sociale, la sua istintiva simpatia per gli umili, il suo istintivo senso di eguaglianza degli uomini (sollecitata anche da generali suggestioni illuministiche) non trovano un centro di decisione consapevole, non rompono l’ordine sociale esistente nella sua struttura gerarchica, ché a volte anzi la comicità nasce dalla situazione di chi vuole uscire dalla sua condizione sociale, per non dir poi (anche se limitate da una convenienza occasionale) di tante dichiarazioni nelle dediche delle commedie che giungono persino a mostrare come provvidenziale la distinzione fra ricchi e poveri, a trovare un disegno di armonia nell’articolazione della società in classi. Vivo sentimento della dignità di tutti gli uomini, antipatia per la prepotenza e la boria dei potenti, viva simpatia per la vitalità schietta e poetica del popolo e per la laboriosità della borghesia attiva, e senso critico (con esiti comici) di fronte alla degenerazione e ai vizi delle classi superiori, ma non programma di battaglia sociale, cosí come il nativo senso di libertà e di tolleranza è ben lungi dal precisarsi in un programma politico e si configura semmai nelle forme di quel «candido liberalismo» di cui parlò Nino Valeri. Ciò che si vuole escludere, al di là della relazione e di altri scritti goldoniani del Dazzi, è appunto la forzatura antistorica della posizione goldoniana, la riduzione della sua complessa poesia e fantasia entro una dura interpretazione sociologica, pur non rifiutando affatto l’arricchimento che può venire alla nostra conoscenza del Goldoni da una piú attenta considerazione dei nessi fra la sua opera e il tempo e la società in cui visse e della sua indubbia attenzione alle concrete distinzioni sociali.

Intervento sulla relazione Bellonci: Goldoni e il teatro puro

Devo rilevare due pericoli nella pur interessante, fine relazione del Bellonci: pericoli sostanzialmente riconducibili a una eccessiva valutazione del valore «teatrale» dell’opera goldoniana (o meglio «puro-teatrale»). Il primo è l’asserzione secondo cui i personaggi goldoniani furono concepiti in vista degli attori di cui il Goldoni disponeva e addirittura inventati sulla misura di questi. Indubbiamente il Goldoni calcolò molto questo rapporto e lo stimolo vivo dell’attore operò sulla fantasia goldoniana come elemento in certo modo di concreta mediazione mondo-teatro. Ma una estensione totale di tale stimolo e rapporto a costante e generale procedimento della poetica e della poesia goldoniana ridurrebbe di troppo la libertà creativa e la ricchezza di esperienze umana e psicologica del Goldoni. E d’altra parte nello sviluppo dell’attività goldoniana, in cui la forza poetica, la funzione espressiva del teatro vanno nettamente crescendo verso la grande zona dell’ultimo periodo veneziano, il rapporto personaggio-attore va certamente diminuendo di importanza a mano a mano che il personaggio vive entro un piú organico rapporto con altri personaggi e attinge una verità sempre piú singolare e universale. Per non dire della crescente tendenza «corale» per cui sarebbe impossibile (si pensi al Campiello o al capolavoro delle Baruffe) immaginare una prefigurazione di personaggi sulla misura di particolari personalità di attori.

Ma la riserva piú generale va fatta sulla tendenza a prospettare l’opera goldoniana nei termini del «teatro puro», sulla cui validità concettuale si potrebbe poi discutere. Certo la formula e l’esperienza anche di regia del teatro puro poté essere nel Novecento un momento di liberazione del teatro goldoniano dal peso mediocre delle interpretazioni e valutazioni di tipo veristico-regionale e sentimentale piccolo-borghese, e poté contribuire a portare nuova attenzione sui valori di ritmo teatrale, di funzione scenica, di movimento scenico e mimico con cui, sull’avvio di esperienze di registi russi, si reagiva anche alle stroncature del Goldoni «petit bourgeois rassis et plein de bon sens» da parte di altri fanatici del mimo e della commedia dell’arte, come il Mic. Ma, assunta come intera dimensione dell’opera goldoniana, la formula del «teatro puro» (con l’inerente esasperazione della continuità Goldoni-commedia dell’arte) rischia di snaturare la complessa realtà della poesia goldoniana che procede verso i capolavori delle commedie veneziane e non verso il Ventaglio, a cui la relazione sembra dare una preminenza poco accettabile: ché quella commedia non è il termine alto, il paradigma essenziale della commedia goldoniana, ma piuttosto un particolare capolavoro di tecnica sottilissima, di giuoco scenico e ritmico abilissimo, ma sostanzialmente privo della piú sicura e concreta presenza della vera poesia goldoniana, ormai esaurita nel precedente periodo delle grandi commedie veneziane.

Intervento sulla relazione Marcazzan: illuminismo e tradizione in Carlo Goldoni

Prendo la parola soprattutto per fare alcune aggiunte e precisare come nel Convegno giunto oramai a conclusione si possa delineare una linea centrale, a cui particolarmente collaborano sia la bellissima relazione Folena sulla lingua del Goldoni sia, tra le altre, la interessante e stimolante comunicazione di Piovene. La relazione Marcazzan ha cercato un punto di equilibrio nella collocazione storica del Goldoni fra illuminismo e tradizione. In proposito penso che, una volta chiarita, come io stesso ho fatto nel mio intervento sulla relazione Dazzi, la diversità della posizione goldoniana da un vero e proprio impegno illuministico, si può senza arbitrio e contraddizione anche piú ampiamente lumeggiare nel Goldoni (la cui posizione è comunque storicamente precisabile in una zona piú avanzata rispetto a quella della civiltà razionalistico-arcadica) una consonanza con larghe tendenze dell’epoca illuministica, un riflesso di suggestioni illuministiche in accordo con alcuni aspetti della sua nativa mentalità. Consonanza che appare piú forte nei Mémoires scritti quando il Goldoni si sentí piú libero, in Francia, dalle cautele imposte dalla censura veneziana e poté avvertire gli stimoli piú diretti della nuova cultura europea: donde il rilievo dato, seppure in forme ironiche, non di impegno sdegnato, alla sua antipatia per la filosofia scolastica, per ogni forma di superstizione, per l’interessato zelo degli ecclesiastici, fino alla considerazione di ogni slancio mistico alla stregua di una malattia. Modi piú o meno accentuati e comunque, si ripete, non programmaticamente polemici, con cui la mentalità goldoniana ben si inserisce non nel piú deciso impegno riformatore, ma nell’atmosfera di una zona storica e culturale, in cui le premesse del razionalismo dell’epoca arcadica si sviluppano, con maggiore o minor forza, verso forme piú chiare e una visione della vita sempre piú a suo modo immanentistica, decisamente mondana, energicamente viva nella fruizione dei valori della vita e soprattutto della vita socievole, del colloquio, del rapporto fra gli uomini, nel cerchio saldo e limpido dei loro interessi e dei loro affetti. Di questa visione vitale e di una simpatia intensa per gli uomini e le loro cose Goldoni fu vero poeta.

E da questo punto di vista mi pare che certe indicazioni del Folena sul linguaggio goldoniano teatrale, ma disposto al dialogo e al concertato da ragioni umane e poetiche piú profonde, e le affermazioni del Piovene sul dialogo, sull’esigenza goldoniana di dialogo, come esigenza appunto preteatrale, concorrano assai bene verso una immagine storica e individualizzante del Goldoni, a cui darebbe appoggio anche una diagnosi della mentalità, della vita interiore goldoniana attraverso una lettura approfondita dei documenti autobiografici, dei Mémoires e delle lettere. Sono citabili in proposito alcuni passi delle lettere per quel che riguarda la sostanziale attenzione goldoniana alla vita nei suoi termini anagrafici assolutizzati (mai uno sguardo alla morte e ai problemi e ai dubbi su di una vita fuori dell’esperienza biologica e socievole), e altri numerosi dei Mémoires per quel che riguarda l’interesse (che sale fino ad attiva simpatia poetica) del Goldoni per la città degli uomini (e l’inerente disinteresse per la «natura» non educata e organizzata dagli uomini), il suo lieto fervore nel nuovo incontro con uomini, ambienti e città (e per queste un entusiasmo nel trovarle superiori all’aspettativa: le risorse della realtà superiori a quelle del puro sogno), il suo minuzioso indugiare nella descrizione della città nei suoi aspetti di abitabilità, di praticità per la vita dei suoi abitanti, che potrebbe parere grettezza impoetica e che viceversa, nella particolare direzione dell’animo goldoniano, trasforma utilitarismo in simpatia poetica (ad esempio la descrizione di Venezia nel suo primo ritorno alla città natale, con il suo lieto immergersi nelle vie popolose e ricche di negozi e «fatte di lastre quadrate di marmo di Istria, leggermente scalpellate perché non vi si scivoli»: dove anche questo particolare si illumina di una singolare luce di simpatia e di poesia). E altre citazioni sarebbero piú direttamente utili ad appoggiare il tema centrale del rapporto umano, del dialogo, di cui certamente il Goldoni (per chi ripensi alla storia del teatro comico pregoldoniano, che ha pure risultati e spunti cosí interessanti ma generalmente su di un piano piú letterario) nel teatro colse la pienezza e la verità poetica proprio perché, al di là delle difficoltà degli altri commediografi (nell’accordo fra realtà e letteratura), in lui dialogo e coralità nascevano nella commisurazione perfetta di un istinto e di una sapienza teatrali con una concreta esperienza umana e con un poetico sentimento della realtà e della validità del dialogo e del rapporto fra gli uomini.

Intervento sulla comunicazione Ferrero: i «Mémoires» del Goldoni e la «Vita» dell’Alfieri

Prendo la parola per esprimere il mio dissenso, poiché l’avvicinamento mi appare sostanzialmente errato. Tutte le pagine piú significative delle due autobiografie confermano le disposizioni originalmente diverse o addirittura opposte di due modi personali, e storici, di considerare la vita, di due forme nuclearmente diverse di reazione alle cose e agli uomini, che possono divenire, anche troppo facilmente, esemplari per distinguere, oltre che i due scrittori, una Weltanschauung latamente razionalistico-illuministica di metà secolo e quella decisamente preromantica.

Si pensi almeno al modo antitetico con cui il Goldoni e l’Alfieri guardano alla natura: il primo tutto volto ad esaltare la natura organizzata dagli uomini, a fruire lietamente delle offerte civili, «abitabili», socievoli della «città» e disattento di fronte alla natura libera e addirittura infastidito di ogni paesaggio e luogo fosco e selvaggio (la visita alle catacombe di Volterra); il secondo viceversa esaltato dagli spettacoli della natura in tensione, dai paesaggi solitari e squallidi (deserti dell’Aragona o distese ghiacciate del Mare del Nord), fino alla contrapposizione ben significativa fra la gioiosa descrizione goldoniana della diletta Venezia o di Parigi, la forma di lieta sorpresa nell’arrivo a nuove città trovate sempre superiori all’aspettativa, l’immergersi compiaciuto del Goldoni in una precisa società (Pisa, Venezia ecc.), in una calda e limitata realtà umana e socievole, contro la delusione e la scontentezza irrequieta dell’Alfieri nella sua esperienza di viaggiatore, la sua scontrosa e aristocratica scelta di amici di eccezione, il suo gusto di solitudine. O si pensi alla diversa maniera di reazione alla musica (incentivo di letizia vitale nel Goldoni, scatenamento di «orribili malinconie», anche trattandosi di musica «buffa», nell’Alfieri) o al loro modo di affetto (nel Goldoni intensificazione della fruizione presente e costante, nell’Alfieri nella lontananza, nell’assenza, nel rimpianto). E insomma direzione diversa e addirittura opposta del loro animo e dell’impostazione delle loro autobiografie. Né basta la comune impresa di «missione teatrale» ad avvicinare davvero le due autobiografie, se non su di un piano assai esterno (ed essa è del tutto insufficiente a raccogliere la ricchezza spirituale e la complessità di significati personali e storici della Vita alfieriana). La possibilità di confrontare le due autobiografie potrebbe dunque sussistere solo per una reciproca illuminazione a contrasto.